"Apocalittici e integrati" continua la sua indagine sul presente e sul futuro della comunicazione, in Italia e nel mondo.
Condivide i suoi pensieri sull'argomento il semiologo Ugo Volli che collabora dalla fondazione (1971) alla rivista Versus - Quaderni di studi semiotici, fondata da Umberto Eco. Dal 1976 al 2009 è stato critico teatrale del quotidiano La Repubblica e ha scritto anche per L'Espresso, Panorama, L'Europeo, Epoca, Specchio , Il Mondo, Grazia, Il Mattino di Napoli, e Avvenire.
È stato consulente scientifico dell'Enciclopedia Treccani per argomenti legati alla moda e ha tenuto seminari a Bonn, Volterra, Lima e New York. Ha insegnato anche "Semiotica della moda" a Bologna (1992-2000), "Storia del costume e della moda" (1995-2000) e "Semiotica" (1994-2002) presso la IULM di Milano. È direttore del CIRCe (Centro Interdipartimentale di Ricerca sulla Comunicazione) dell'Università di Torino e ha guidato ricerche nazionali e internazionali. Presiede il corso di laurea magistrale in Comunicazione e culture dei media.
1) In che stato versa, secondo lei, la comunicazione televisiva, radiofonica, web e cartacea oggi in Italia? E' sana o avrebbe bisogno di qualche cura?
I dati mostrano che c’è una drammatica contrazione di alcune forme di comunicazione, in particolare per quanto riguarda i quotidiani.
Per fare un solo esempio, il “Corriere” diffondeva nel 2013 circa 470 mila copie fra cartacee e digitali, “Repubblica” 380 mila.
Nell’ottobre scorso, il totale del “Corriere” era 274 mila copie, quello di “Repubblica” 210 mila. Tutti gli altri quotidiani seguono questo trend. Perdere fra un terzo e metà delle copie in cinque anni è una catastrofe epocale.
Il giornalismo delle testate “autorevoli”, come l’abbiamo conosciuto nell’ultimo secolo e mezzo, è finito. Ciò che viene rifiutato è il prodotto giornalistico completo, con la sua grammatica, le sue gerarchie, la sua identità. Il consumo di informazione oggi è frammentato in singole notizie, tratte da fonti disparate.
Non ci sono provvedimenti possibili per riportare in vita il vecchio giornalismo, che sopravviverà, ma sempre più come prodotto di nicchia, analogo al teatro.
Una crisi analoga vale per la televisione generalista. Gli ascolti di Rai e Mediaset insieme, che nel 2010 erano stati il 78,7%, nel 2017 erano caduti al 66%.. Più impressionanti ancora sono i dati assoluti: nel 1987 le prime tre trasmissioni toccavano fra i 16 e i 13 milioni di spettatori; nel 2005 fra i 13 e gli 11 milioni. Nel 2015 erano 7 milioni.
Una quota crescente e presto maggioritaria di pubblico consuma spettacolo sul web. Anche qui, salvo proibire la rete, nessun provvedimento può salvare il palinsesto unificato della vecchia Tv. La comunicazione in tutto il mondo è sottoposta a una rivoluzione irresistibile.
2) Secondo lei esiste una differenza fra informazione e comunicazione?
L’informazione è quella parte della comunicazione che ha la pretesa di far sapere come è fatto e come cambia il mondo reale. E’ dunque soggetta a un giudizio di verità o falsità e non solo a quello della maggiore o minore efficacia, gradevolezza, creatività che vale per tutta la comunicazione.
Ormai da molti anni però, il confine fra informazione vera e propria e comunicazione in senso generale non è più netto. Vi sono forme di “infotainment” che della realtà fanno in diversi modi spettacolo e del resto non mancano i “fattoidi” che sono creati da comunicatori per produrre notizie di loro interesse.
In questo genere di “informazione artificiale” manipolata per far girare la comunicazione che interessa non rientrano solo gli eventi di relazioni pubbliche, dalle conferenze stampa ai “lanci” di iniziative, ma anche iniziative politiche serie come le manifestazioni e perfino tragiche.
Il terrorismo spesso serve a produrre informazione che comunichi quel che interessa ai terroristi.
3) Vale ancora la pena oggi, per un giovane, dedicarsi allo studio della comunicazione e ambire a lavorare in questo contesto?
I giovani ritengono di sì.
I corsi di laurea in Scienze della comunicazione ci sono da quasi trent’anni e conoscono ancora un grande successo in quasi tutte le sedi.
I dati dell’ente ufficiale che cura le statistiche sull’ingresso nel mondo del lavoro (Almalaurea) mostra che non solo dopo cinque anni il 90% dei laureati lavora, ma che scienze della comunicazione ha risultati molto migliori della media del gruppo delle lauree politico-sociali (80%) o letterario (74%).
Questo non può meravigliare, perché con l’avvento del web il lavoro di comunicazione si è ampliato moltissimo. Studiare comunicazione vuol dire anche mettersi in condizione di affrontare il nuovo assetto della società e del mercato del lavoro in modo critico.
4) La frase "televisione cattiva maestra" è, considerando la situazione attuale in Italia e nel mondo, condivisibile?
Mi sembra francamente molto superato.
Una volta si dava la colpa degli aspetti della società che si voleva criticate alla televisione, oggi lo si fa con la rete, cui si attribuisce perfino il monopolio delle “fake news” che in realtà ci sono sempre state in tutti i media.
La verità è che le persone si servono dei mezzi di comunicazione secondo modalità e fini che vengono da fuori dei mezzi stessi: dalla famiglia, dal gruppo dei pari, dalla scuola.
Non vi sono mezzi buoni e mezzi cattivi, solo usi più o meno consapevoli e critici dei mezzi. Spesso queste critiche poi in fondo sono fatte da parte di un’élite che non accetta la presenza delle “masse” che hanno gusti e abitudini diverse dalle loro.
Sono critiche vecchie, che si diffondono in Europa a partire da un secolo e mezzo fa. Del resto le masse ci sono sempre state, le persone “distinte” sono sempre state minoranza; semplicemente esse avevano la libertà di ignorarle, mentre il libero mercato, la democrazia economica e politica danno loro il modo di affermare la forza del numero.
5) Netflix, le webserie, i reportage su web, i videoblog sostituiranno completamente la fruizione video televisiva o no?
La televisione generalista è già in ogni casa, programmata secondo criteri ben collaudati per orario generi e personaggi.
Dobbiamo pagarla per forza, sia che le guardiamo sia che la teniamo spenta e dunque sembra non costare nulla.
E’ facile che diventi argomento di conversazione, cioè che si presupponga che tutti più o meno conoscano i programmi principali. E’ anche un apparecchio più comodo da vedere dei computer, per non parlare degli smartphone.
E’ probabile che resti lì ancora per molto tempo, lentamente degradando. Un colpo ulteriore verrà dal rinnovamento del parco degli apparecchi, che arriveranno tutti a una connessione facile alla rete, togliendo alla Tv il vantaggio della visibilità.
Bisogna ricordare che il cinema non ha ucciso il teatro, l’ha solo imitato (tecnicamente si dice che i nuovi mezzi “rimediano” i vecchi) ed emarginato; lo stesso ha fatto la Tv col cinema.
E’ probabile che progressivamente diventerà marginale il “palinsesto”, cioè la programmazione comune dello spettacolo audiovisivo e che ognuno sceglierà che cosa vedere, quando e dove. Allora le televisioni generaliste saranno la stessa cosa dei canali di Youtube o Netflix.
6) Lei si definirebbe apocalittico o integrato?
Né l’uno né l’altro. Ritengo di essere un osservatore realista.
APOCALITTICI E INTEGRATI - UGO VOLLI
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martedì, febbraio 05, 2019
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