"Il medium e il messaggio" è la nuova inchiesta sul rapporto tra cultura e televisione, ispirata alla rivisitazione del celebre motto di McLuhan, tratto dal suo saggio, "il medium è il messaggio", che si avvale della partecipazione alla discussione di numerosi esponenti della cultura, della divulgazione, della televisione e del Web,
Oggi offre il suo contributo Silvia Calandrelli, Direttrice Rai Cultura, Direzione che comprende Rai Scuola, Rai Storia, Rai 5, l'Orchestra Sinfonica Nazionale e le produzioni di prosa e musica colta per le reti generaliste.
È membro del Comitato Storico Scientifico per gli Anniversari di Interesse Nazionale.
Ha curato numerose docenze presso la facoltà di Scienze della Comunicazione dell'Università La Sapienza di Roma e la facoltà di Economia dell'Università Tor Vergata per il Master in Economia e Gestione della Comunicazione e dei Media.
E' ancora possibile oggi usare la TV per diffondere la cultura, intendendo con questo termine la divulgazione di sapere relativo all'Arte, alla Storia, alla Letteratura come avveniva negli anni '60 e '70?
Per rispondere, serve una premessa: la televisione è ancora un medium molto diffuso ma ha sicuramente cambiato volto, in particolare per le giovani generazioni.
Basti pensare a un dato che viene dalla ricerca presentata nel giugno scorso dall’Osservatorio Media e Internet del Politecnico di Milano: la percentuale del campione che guarda la televisione in forma ‘tradizionale’ (e cioè partendo dal palinsesto) resta pari al 73% fra gli over 55, ma scende al 49% fra i giovani, che si stanno orientando sempre più verso l’on-demand.
Televisione e Internet sono del resto in un rapporto complesso: da un lato c’è certo una concorrenza rispetto all’uso del tempo, ma dall’altro c’è anche una forte integrazione: la fruizione di contenuti televisivi avviene sempre più spesso attraverso la rete o sulla base di stimoli ricevuti in rete, e si riflette direttamente sui comportamenti e contenuti condivisi nei social network.
Questa situazione riguarda ovviamente anche i contenuti culturali, e anzi li coinvolge in maniera per molti versi più diretta, perché i contenuti culturali sono molto più adatti alla fruizione on-demand rispetto a settori come l’informazione o lo sport (che spesso dipendono dalle dirette).
Dunque certo: la televisione – e in particolare il servizio pubblico – può e deve continuare a diffondere contenuti culturali; è parte, e una parte essenziale, della sua missione. Ma deve necessariamente farlo in forme nuove rispetto al passato.
Perché da oltre vent'anni i volti italiani in Tv che si occupano di cultura sono sempre gli stessi? Non c'è spazio per nuovi esperti divulgatori culturali o proprio non ce ne sono più in Italia?
Non credo sia del tutto vero che i volti non cambiano: a RAI Cultura ad esempio abbiamo molte trasmissioni condotte e curate da volti nuovi o comunque abbastanza giovani (faccio solo un esempio, la trasmissione Digital World, condotta da Matteo Bordone).
E la trasmissione Passato e Presente, quella forse più diffusa e rappresentativa nella programmazione di RAI Storia, vede la partecipazione ad ogni puntata di tre giovani studiosi, che affiancano storiche e storici di grande autorevolezza ma spesso a loro volta tutt’altro che ‘anziani’.
Certo è anche vero che alcuni divulgatori di grande esperienza – basti pensare a Piero Angela – sono fortunatamente ancora attivi: ma non è certo un male!
La divulgazione di qualità richiede forti competenze professionali, e la presenza di alcuni ‘maestri’ accanto alle nuove leve ne aiuta la crescita.
Per "fare cultura" la televisione è un mezzo valido o è preferibile usare le nuove tecnologie, il Web in primis?
Come ricordavo poc’anzi, i due strumenti ormai non vanno più visti come alternativi ma come strettamente collegati.
Pensare di usare la televisione solo in maniera tradizionale, ignorando la rete, non avrebbe senso, così come non avrebbe senso abbandonare completamente il medium televisivo, che continua ad essere molto usato e ad avere caratteristiche di fruizione specifiche (basti pensare al grande schermo dei televisori di oggi).
La programmazione culturale, proprio come altri tipi di contenuti, deve essere oggi transmediale, e questo non solo per quanto riguarda la fruizione ma anche rispetto all’ideazione e alla produzione.
Secondo lei, l'utilizzo degli smartphone, con la visualizzazione in uno schermo piccolo e verticale, rischia di alterare la fruizione dei contenuti? Se sì, i contenuti culturali risultano avvantaggiati o sfavoriti da questo tipo di device?
Indubbiamente i formati ‘verticali’ hanno oggi grande fortuna, perché corrispondono allo schermo dello smartphone. Ma nelle nostre case ci sono anche i televisori, con schermi sempre più grandi e che semmai sono passati dal vecchio formato 4:3 a formati molto più ‘orizzontali’.
Le due cose non sono necessariamente in contrasto: testimoniano solo l’importanza dei dispositivi di fruizione nel contribuire a determinare alcune caratteristiche dei contenuti fruiti. E si può fare cultura sia in formato breve e ‘verticale’ sia attraverso gli schermi televisivi.
Certo per ora i formati ‘verticali’ sono più legati al contenuto generato dagli utenti che a contenuti prodotti professionalmente; e personalmente non credo che questo cambierà: i nostri occhi lavorano su un campo visivo più ‘orizzontale’ che verticale, quindi i grandi schermi resteranno credo inevitabilmente legati più alla dimensione orizzontale che a quella verticale.
Le emittenti tv, in genere, cercano nuove idee di format culturali o preferiscono adagiarsi su dinamiche consolidate?
Posso rispondere naturalmente solo per RAI Cultura: noi siamo sempre alla ricerca di nuovi format, di idee nuove.
Detto questo, è anche naturale che quando si riesce a realizzare format che funzionano bene li si riproponga, magari cercando di migliorarli ulteriormente.
IL MEDIUM E IL MESSAGGIO - SILVIA CALANDRELLI
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giovedì, febbraio 21, 2019
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