"Apocalittici e integrati" che prende spunto dall'omonimo saggio di Umberto Eco in cui il semiologo analizzava gli aspetti positivi e quelli negativi della cultura di massa e mass-media, continua la sua indagine sul presente e sul futuro della comunicazione, in Italia e nel mondo.
Partecipa alla discussione Maurizio Canetta, direttore della Radiotelevisione svizzera.
Giornalista, conduttore, è stato responsabile del settore Cultura TV e del Dipartimento Cultura dell'azienda mediatica indipendente SSR.
1) In che stato versa, secondo lei, la comunicazione televisiva e radiofonica? E' sana o avrebbe bisogno di qualche cura?
La salute è come quella di chi va dal medico sentendosi sostanzialmente bene: fatte tutte le analisi, si trova sempre qualche valore fuori posto.
Il tema è evidentemente complesso, perché oggi la comunicazione radiofonica e quella televisiva sono universi frantumati che si disperdono in mille rivoli, al punto che si tende a parlare di « audio » e « video », visto che la diffusione dei contenuti avviene in moltissimi modi e con linguaggi sempre più differenziati.
L’impatto di internet è devastante, sia nel senso buono sia in quello meno buono. La televisione resta il media di riferimento e di impatto maggiore, soprattutto per i grandi eventi in diretta, ma affronta la crisi del consumo frammentato, dei portali che vivono di spezzoni.
La TV è diventata un grande Blob (trasmissione anticipatrice di una tendenza ormai generale) nel quale orientarsi è difficilissimo. Io stesso guardo ovviamente molti prodotti video e mi capita spesso di non ricordare dove li ho visti. È l’opera di blob, il fluido mortale.
Per le reti televisive il problema è il mantenimento dell’identità, l’affermazione del proprio marchio. La malattia che rischia di metterle in grande difficoltà è la rincorsa alla brevità assoluta, all’eccesso di « effetto clip », quando il ritmo domina i contenuti.
Per la radio il discorso è un po’ diverso, perché lo zapping in radio è fenomeno meno diffuso, anche se si stanno affermando i podcast nativi (contenuti audio che non vengono prodotti per essere mandati in onda su una rete) e cresce la radio con immagini, che va in onda su internet e si sta evolvendo dalla pura ripresa del programma e propone un programma radio con aggiunta di immagini e grafica.
Anche in questo fenomeno c’è il rischio della confusione dei generi, che resta a mio parere quello più difficile da affrontare. Non è semplice stabilire il confine tra la contaminazione (positiva) e la confusione (negativa).
2) Secondo lei esiste una differenza fra informazione e comunicazione?
Fare informazione è una questione di fonti affidabili, di rigore e di fiducia del pubblico nei tuoi confronti. La comunicazione può contenere elementi narrativi che sfuggono a questi criteri.
Non si tratta di demonizzare la comunicazione, semplicemente di riconoscerla. Oggi comunque tutte le aziende di media fanno entrambe le cose, perché l’informazione è inserita in un meccanismo di comunicazione.
Un piccolo esempio: se io faccio un servizio sul ristorante che fa pagare il conto a seconda del numero di follower su Instagram, informo il pubblico su una nuova possibile tendenza sociale o partecipo alla comunicazione di quel ristorante (che esiste davvero)?
La vera grande battaglia del mondo dell’informazione riguarda la capacità di descrivere i meccanismi della comunicazione, a volte di smascherarli, non per condannarli a prescindere, ma per permettere al pubblico di capire e poi scegliere.
3) Vale ancora la pena oggi, per un giovane, dedicarsi allo studio della comunicazione e ambire a lavorare in questo contesto?
Vale sempre la pena studiare un elemento centrale per la società. Oggi i mestieri della comunicazione poi si sono moltiplicati a dismisura. Si può lavorare direttamente nei media, ma anche nella politica, nelle aziende, in pratica dappertutto.
La parola magica è diventata « story telling », ovvero la capacità di portare il pubblico ad appassionarsi a un racconto anziché a un prodotto. In questo senso i veri maestri - spesso cattivi - sono i guru razziatori che vengono dalla Silicon Valley.
I giganti della rete (Amazon, Google, Facebook, Apple) stanno conquistando il mondo, anche quello dell’informazione, e nello stesso tempo ammantano la loro comunicazione con valori positivi come amicizia, collaborazione, democrazia pura.
4) La frase "televisione cattiva maestra" è, considerando la situazione attuale della comunicazione televisiva condivisibile?
Quando Popper scrisse il suo famoso saggio, la tv era imperante e in espansione. Oggi qualcuno - secondo me sbagliando - parla di morte della televisione.
I cattivi maestri, se tali sono, stanno probabilmente altrove. La TV , con tutti i suoi limiti e le sue derive, era un prodotto totalmente concepito da persone, oggi i cattivi maestri sono semmai gli algoritmi che dominano il mondo.
Credo che la televisione conservi una forte componente artigianale, nonostante l’esplosione delle nuove tecnologie e la società ormai ossessionata dai dati più che dai contenuti, e questo mi pare un discreto antidoto.
5) Netflix, le webserie, i reportage su web, i videoblog sostituiranno completamente la fruizione video televisiva o no?
Non credo.
Le cito una battuta di un collega italiano: continuiamo a parlare di morte della televisione e siamo qui ogni anno a guardare e commentare il Festival di Sanremo.
È chiaro che Netflix ha imposto un nuovo modo di impostare la diffusione dei contenuti video. Si parte dell’intrattenimento puro (serie tv, che sono il grande romanzo popolare moderno) poi si va verso il cinema e il documentario.
È la realizzazione dello slogan: i contenuti li guardi quando vuoi, come vuoi, dove vuoi. C’è una vendita illusoria della libertà assoluta del fruitore, ma la raccolta sistematica dei dati, il loro incrocio e il loro uso per indurre il consumo, rappresentano una gabbia non indifferente.
La vera difficoltà dei produttori di contenuti del servizio pubblico (come la RSI, la RAI e tutte le altre) è quella di mantenere la propria anima in un mondo caotico.
Penso che in un mondo mediatico in frantumi, il nostro compito sia quello di ricomporre questi frantumi. Però bisogna assolutamente tener conto dei numeri, senza farne un’ ossessione da clic o da indici d’ascolto.
Armin Walpen, un direttore generale della SSR (la televisione pubblica svizzera), ci diceva sempre: il servizio pubblico non può essere un servizio senza pubblico. Bilancia difficilissima da tenere in equilibrio.
6) Lei si definirebbe apocalittico o integrato?
Visto il mestiere che faccio, ovviamente integrato, ma con tratti da apocalittico.
La critica alla cultura di massa vale oggi ancora più di quando Umberto Eco ha scritto il suo saggio, perché lo sviluppo delle forme di dominio assoluto della società dell’informazione si è rafforzato e sta diventando una dittatura (quella dell’algoritmo).
La funzione degli apocalittici non può oggi essere quella di Farenheit 451 - ricordate il romanzo di Bradbury e il film di Truffaut con i lettori che imparavano a memoria i libri per far fronte alla loro distruzione? - ma passa per l’integrazione nel meccanismo per cercare di salvaguardare la trasmissione di valori culturali (che non siano elitari, mi raccomando!) e stimolare la voglia del pubblico di scegliere in modo autonomo e di cercare percorsi originali.
APOCALITTICI E INTEGRATI - MAURIZIO CANETTA
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martedì, gennaio 22, 2019
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