Senso Comune è la rubrica dedicata alla ricerca del senso perduto della comunicazione nell'odierna società.
Attraverso interviste a intellettuali, scrittori, filosofi, artisti e pensatori, cercheremo di comprendere cosa sta accadendo e come e se sia possibile porre rimedio all'insostenibile inconsistenza del segno, delle parole, dei messaggi e delle immagini che ci circondano e ci bombardano quotidianamente.
Oggi risponde alle nostre domande Simone Perotti, scrittore e marinaio. Oltre a numerosi racconti su riviste letterarie cartacee e on-line, ha pubblicato manuali, saggi e romanzi fra cui: "Zenzero e Nuvole" , "Uomini senza vento","L'equilibrio della farfalla" e "Dove sono gli uomini".
Ha collaborato e collabora con riviste e giornali «Il Fatto Quotidiano», «Yacht & Sail», «Fare Vela», «Dove», «Style», «Corriere della Sera»
Perotti è inoltre l'ideatore e co-fondatore di Progetto Mediterranea, una spedizione nautica, culturale e scientifica della durata di 5 anni (2014-2019) con cui sta girando il Mediterraneo per intervistare scrittori, artisti, intellettuali dell'area e svolge ricerca oceanografica in collaborazione con università e istituti di ricerca.
Per i suoi articoli e reportage di viaggio ha vinto, nel 2016, il "Premio Montale Fuori di Casa - Sezione Mediterraneo
1) Parole come "matrimonio", "padre e madre", "maschio", "femmina", "uomo", "donna", "sesso", "genere", "razza", "libertà", "vita", "morte", "diritto", "marito", "moglie", "amore", sono nella nostra società in una fase di metamorfosi, in cui il significante e il significato stanno perdendo il solido legame avuto in millenni di civiltà. E' d'accordo con questa affermazione? In tal caso, quali le conseguenze?
Non so se queste parole stiano mutando il loro significato. L’uomo stupisce sempre per la sua straordinaria capacità di cambiamento rimanendo sostanzialmente lo stesso. Se leggiamo Platone, Seneca o Epicuro, Sant’Agostino, Hegel o Heidegger, trovandoci dentro pienamente la nostra vicenda umana, evidentemente l’uomo non cambia di molto nei millenni.
Eppure, la donna di Dante e Petrarca era molto diversa da quella che i più immaginano oggi pensando a una moglie, a una compagna, a una collega di lavoro, a un’amante, a un'amica. Come se fossimo i protagonisti di un continuo cambio d’abito, di casa, di scenario ma nel corso delle nostre vite, secoli dopo secoli, dovessimo comunque fronteggiare il medesimo destino di uomini e donne.
Tutto è andato più o meno così, fino ad oggi… perché quel che è capitato negli ultimi cinquant’anni sembra in grado di sconvolgere questa regola.
La tecnologia, cioè la relazione tra l’uomo e il sistema naturale intorno a lui, è radicalmente mutata. Anche questa volta l’uomo al mutare del layout rimarrà il medesimo in grado di riconoscersi nelle parole di Seneca? Anche a fronte degli sconvolgimenti planetari, biotecnologici, bioetici, resterà l’essere capace di una resistenza straordinaria e al tempo stesso di una fragilità interiore sofisticatissima?
La mia impressione è che la massificazione, l’omologazione, la riduzione progressiva della libertà, la coercizione coatta del sistema del denaro/lavoro/consumo stiano portando l’uomo nel punto inferiore della sua potenzialità di sentimento e dunque espressiva. Mai come oggi il coraggio di azioni anche minime scarseggia. Mai come oggi, nonostante l’innalzamento della qualità complessiva della vita sembriamo impauriti e senza troppe speranze. E purtroppo, quasi tutti i termini tra virgolette qui sopra costituiscono valori per vivere per i quali occorre coraggio, saldezza, tenuta psicologica, tensione morale, ispirazione, fermezza.
Da questo punto di vista la mia risposta è sì, dunque: quelle parole stanno perdendo per la maggior parte di noi la relazione solida con le nostre esistenze. Ma ripeto, l’uomo ha attraversato fasi molto complesse, e non mi stupirei che di fronte all’ultimo miglio della sua stessa sopravvivenza non ci stupisse riscoprendo tutto il valore dell’avventura individuale e relazionale della vita. E dunque del linguaggio con cui la esprime.
2) Il termine "negro" oggi percepito con accezione fortemente negativa e lesiva della dignità umana, un tempo non molto lontano si trovava sui libri di scuola per descrivere, senza un filo di volontà offensiva, persone di ascendenza africana con la pelle scura, con lo stesso valore referenziale che oggi si darebbe al termine "caucasico". Si tratta secondo lei di un processo temporale fisiologico della lingua o di intromissioni da parte di una sorta di neolingua "polically correct"?
Ciò che conta della lingua non è tanto che una parola muti di significato o venga sostituita da un’altra, ma l’attinenza tra la percezione del significato di quella parola con l’uso che se ne fa. Intendo dire che se sostituiamo nel corso dei decenni “negro” con “nero”, questo pertiene solo al codice.
Ma il problema del linguaggio resta sempre nel duplice ambito di chi lo usa e della percezione che ne ha. Oggi abbiamo perduto qualunque ritrosia nell'esprimerci in modo razzista. Il paradosso è dunque che percepiamo come razzista la parola “ negro” (e dunque apparentemente ci siamo raffinati nel rispetto dell’altro) ma siamo assai più razzisti, mediamente, di come eravamo quando definivamo un nero “Negro”.
Inoltre, assistiamo ogni giorno alla restrizione del vocabolario da parte delle persone, che non hanno (mediamente) quasi più alcuna cognizione di alcun linguaggio specialistico, e anche all'interno del linguaggio generale dimenticano progressivamente moltissime delle parole più precise per definire situazioni o concetti anche correnti.
Il risultato è un’imprecisione terminologica, dunque semantica, dunque espressiva, straordinaria. Il "qui pro quo" tra chi usa il linguaggio in modo esteso e chi ne usa solo una parte è dietro l’angolo di qualunque dialogo, perché il significato che diamo alle parole è polarizzato in modo estremo: da un lato l’enorme quantità di persone che usa sempre meno parole e con significato impreciso e generico; dall'altro un'assoluta minoranza che usa molte parole con significati estremamente precisi.
Intendersi dunque sui valori, su ciò che si sta dicendo, e sul significato che diamo alle nostre affermazioni, è sempre più difficile. In presenza di una deriva analfabetica così violenta il problema del “politically correct” passa in secondo piano pesantemente, perché capirsi (cioè lo stadio precedente) è già terribilmente difficile.
Conosco persone che non capiscono concetti anche semplici, se devono ascoltare o leggere, ma se fai vedere loro un breve video comprendono più o meno tutto. Salvo poi non saperlo esporre o sintetizzare o ripetere (o vivere) in modo corretto.
3) Ritiene che nella nostra società stiamo assistendo a un progressivo perdersi di senso? In altre parole, quando un termine o un simbolo perde di senso, quando vi è uno scollamento fra significato e significante e i simboli non sono più convenzioni universalmente accettate nella medesima cultura, su quali presupposti può generarsi e basarsi una sana comunicazione e una vera condivisione di ideali e progetti nella società?
Credo che la faccenda vada inquadrata capovolgendola. Io sono un fermo sostenitore del fatto che "nomina sint consequentia rerum” (non è un refuso della citazione, ho messo “sono" al congiuntivo: “siano”. Ndr).
Il problema delle parole è sempre “le cose”. Donne e uomini confusi, senza meta, senza la tempra morale per opporsi all'omologazione, incapaci di elaborare pensieri originali sostenendone la responsabilità, orientati tutti insieme verso un’autodistruzione ormai evidente… come dovrebbero esprimersi? Ciò che perde di senso qui non sono le parole, ma le persone.
Le parole le rappresentano soltanto, e assai fedelmente purtroppo. La famosa citazione morettiana: “Chi parla male pensa male e vive male” ("Palombella Rossa”) è tanto bella quanto sconclusionabile. Qui il problema è che si pensa male, dunque si vive male, dunque si parla male.
4) Gorgia, antico filosofo greco, affermava che "la realtà non esiste; se esistesse non sarebbe conoscibile; se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile". Si evoca, in pratica, uno sfasamento tra significato e significante, che implica la creazione di terminologia e iconografia sciolte da ogni vincolo, poliedriche ma incapaci di comunicare, di inviare un messaggio univoco. Pensa che si tratti dello scenario attuale o ritiene che questa sia una preoccupazione infondata?
Assolutamente no.
Io leggo l’affermazione di Gorgia come una constatazione sulla natura della nostra esistenza: troppo simili a Dio per non capire le domande, troppo diversi da lui per conoscere le risposte.
Ed è la base su cui si fonda l’arte, perché la scienza è lo strumento perfetto per conoscere tutto ciò che è misurabile, la fede è l’unico strumento per conoscere ciò che non è dimostrabile, ma ciò che sta in mezzo, cioè le nostre vite, dunque l’unica cosa interessante, è indagabile solo con l’arte.
Nella caverna di Platone nasce il concetto di investigazione artistica della vita dell’uomo, perché nasce il concetto di rappresentazione, di “finzione", che guarda caso usiamo ancora in letteratura e nelle arti audiovisive: la fiction.
5) Umberto Eco, parlava di "semiosi illimitata", ovvero la narrazione di un mondo in cui è impossibile comunicare, in quanto, in un processo di costruzione di significato, operato in collaborazione da emittente e da destinatari, ognuno inserisce nel contenitore "testo comunicativo" il senso che preferisce, non quello che effettivamente l'emittente intende comunicare attraverso quel testo. Lei pensa che oggi la comunicazione attuale si sia inserita in questo vicolo cieco?
Beh, Eco si riferiva all’intrinseca difficoltà della comunicazione tra esseri che, anche quando hanno un codice comune, corrono il rischio costante della distonia per la differenza profonda del valore attribuito da ognuno allo stesso codice. La comunicazione oggi corre un rischio assai meno raffinato, e assai meno inevitabile. Poco pensiero, poco studio, pochi strumenti di analisi, generano una comunicazione povera, meccanicistica, in cui il livello simbolico è atrofizzato. Basta vedere cosa scrivono e come scrivono gli scrittori dei libri che vanno per la maggiore.
Oggi chi “scrive per gente che legge” è candidato al minoritarismo commerciale, dunque all'emarginazione editoriale. Quando allunghi una frase di tre parole o calchi la pericolosissima palude di un’incidentale, sai che stai perdendo migliaia di lettori in un colpo.
Non vorrei citare la nota battuta del Grande Freddo, quando uno dei protagonisti, al mattino, in cucina, risponde alla domanda: “E cosa scrivi?”…. Ecco.
SIMONE PEROTTI E SENSO COMUNE - ALLA RICERCA DEL SEGNO PERDUTO
Reviewed by Polisemantica
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giovedì, dicembre 13, 2018
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