PIETRO RATTO E SENSO COMUNE - ALLA RICERCA DEL SEGNO PERDUTO



Nuova puntata di Senso Comune rubrica di approfondimento dedicata alla ricerca del senso perduto della comunicazione nell'odierna società.

Attraverso interviste a intellettuali, scrittori, filosofi, artisti e pensatori, cercheremo di comprendere cosa sta accadendo e come e se sia possibile porre rimedio all'insostenibile inconsistenza del segno, delle parole, dei messaggi e delle immagini che ci circondano e ci bombardano quotidianamente.



Oggi risponde alle nostre domande Pietro Ratto, scrittore, saggista, filosofo, insegnante e musicista italiano. I suoi scritti trattano di storia, filosofia, didattica, scuola e attualità.

Ha scritto vari saggi tra cui "La passeggiata al tramonto. Vita e scritti di Immanuel Kant", "L'Honda anomala. Il rapimento Moro, una lettera anonima e un ispettore con le mani legate", "I Rothschild e gli altri" e "Il Gioco dell'Oca", vincendo anche parecchi premi letterari.

Cura il blog Bosco Ceduo




1) Parole come "matrimonio", "padre e madre", "maschio", "femmina", "uomo", "donna", "sesso", "genere", "razza", "libertà", "vita", "morte", "diritto", "marito", "moglie", "amore", sono nella nostra società in una fase di metamorfosi, in cui il significante e il significato stanno perdendo il solido legame avuto in millenni di civiltà. E' d'accordo con questa affermazione? In tal caso, quali le conseguenze?

In linea di principio io non sono per nulla contrario alle trasformazioni. Ben vengano, anzi.

Naturalmente, però, alla riflessione sulla trasformazione dei significati va associata quella sul significato delle trasformazioni.

È evidente che questi mutamenti semantici costituiscano il riflesso di altrettanti, profondi cambiamenti sociali, e che la riflessione su di essi non possa prescindere dalla domanda intorno al valore e al senso di questi cambiamenti. In altre parole, la nostra valutazione sulla variazione semantica di un segno non può che dipendere dal modo con cui consideriamo e valutiamo il rinnovamento prodottosi nel fenomeno che esso denota.

La questione quindi, così come mi viene posta, mira indirettamente (ma essenzialmente, mi sembra), a chiedermi di esprimere una valutazione sulle grandi trasformazioni sociali e politiche in atto in questo tempo. Temi caldi, molto dibattuti, che attengono a dinamiche complesse come quella delle unioni civili, “dell’ufficializzazione” delle coppie non eterosessuali, dell'immigrazione e della complessità che questo fenomeno comporta, soprattutto in termini di relazioni con la realtà “autoctona", eccetera. Per non parlare di questioni di capitale importanza, come la degenerazione di concetti come quelli di “amore” o di “morte”, di cui in gran parte si è resa - e costantemente si rende - responsabile la sfera dei Mass media.

Dal mio punto di vista, però, valutazioni di questo tipo non possono che esser soggettive. In linea con un'interpretazione heideggeriana, condivido quella nozione di “Valore” che Nietzsche esprime proprio in termini di “punto di vista”, nel senso quindi dell'angolazione da cui si osserva il mondo, della personalissima posizione da cui si mira al bersaglio.

Bisogna rendersi conto, infatti, di come questo sia uno snodo fondamentale della discussione. Il modo con cui viene inteso il concetto di “valore”. È proprio questo il punto. Nell'attribuzione di un valore a una trasformazione, infatti, non può non esser tenuta saldamente e costantemente presente l’ambiguità con cui lo stesso concetto di “valore” viene impiegato.

Semplificando, chiedersi il valore (positivo o negativo che sia) della trasformazione di senso di una parola significa porre la domanda circa il valore della trasformazione relativa al fenomeno che essa stessa denota.

Ma questo domandarsi tira necessariamente in ballo - anzi: più probabilmente implica - il problema della trasformazione (in termini soggettivi, oltre che temporali) del termine stesso “valore”. Con tutta la ricorsività che ciò, drammaticamente e intrigantemente, comporta.

In pratica, la mia risposta cambia radicalmente se considero il concetto di valore un costrutto mentale granitico, universale, che so: addirittura innato, in relazione al quale ogni mutamento, quindi, si traduce in “disvalore” collettivo, o se al contrario lo reputo un “punto di vista relativo” a una certa posizione. Una posizione sociale, culturale, religiosa, politica e via di seguito. Tanto più se, coerentemente con questa seconda opzione, non stabilisco alcuna gerarchia tra le diverse “posizioni”.

Nel primo caso, per esempio, il concetto di “matrimonio” può esser reputato in serio pericolo dalle nuove istanze omosessuali o dalle esigenze di chi reclama pari dignità per le unioni “non ufficializzate". Nel secondo caso si può invece accettare serenamente questa trasformazione senza scandalizzarsi e urlare al “disvalore”. O, addirittura, ricorrere semplicemente a parole diverse senza stabilir priorità di “valore” di una rispetto a un’altra. Soprattutto in termini di diritti.

Personalmente, infatti, lavoro costantemente per uno Stato in cui si verifichi un fenomeno di massimizzazione dei diritti e di minimizzazione dei doveri. In quest'ottica, per quel che mi riguarda, sono disponibilissimo a qualunque trasformazione di significato, qualora ad essa possa corrispondere un incremento di diritti in tutte le direzioni possibili. Molti dei termini che lei elenca, quindi, dal mio punto di vista possono tranquillamente subir delle variazioni, se questo può servire a render le persone più felici.

E proprio qui mi ricollego a quanto prima ho sostenuto circa la “degenerazione” di alcune nozioni fondamentali. Una cosa, infatti, è assistere al cambiamento del concetto di “matrimonio” (che, se ci pensa, non crea nessun problema se non a causa della forte componente confessionale che ad esso è stata sovrapposta), altro è la banalizzazione dell'amore o la spettacolarizzazione della morte.

Atteggiamenti mediatici, questi, estremamente gravi perché, sull'altare di logiche commerciali e di profitto, sacrificano l’approccio profondo ad aspetti essenziali alla comprensione esistenziale di ogni condizione umana.

E, così facendo, tragicamente producono infelicità.





2) Il termine "negro" oggi percepito con accezione fortemente negativa e lesiva della dignità umana, un tempo non molto lontano si trovava sui libri di scuola per descrivere, senza un filo di volontà offensiva, persone di ascendenza africana con la pelle scura, con lo stesso valore referenziale che oggi si darebbe al termine "caucasico". Si tratta secondo lei di un processo temporale fisiologico della lingua o di intromissioni da parte di una sorta di neolingua "politically correct"?

Anche in questo caso, si tratta di una trasformazione lessicale e semantica che ha a che fare con un fenomeno molto delicato.

Personalmente non ho nulla contro le parole in se stesse, perché è vero: non è certo sull'occorrenza di una consonante all'interno di un dato vocabolo che si misura un atteggiamento razzista.

Resta il fatto, però, che se quella “g” può provocar risentimento e senso di discriminazione, se è in grado di far soffrire un uomo, allora non esito un solo istante a eliminarla dal mio vocabolario.

Personalmente, poi, smetterei di parlare di “politically correct” e, più in generale, di politica.

Stiamo imparando a valorizzare troppo la politica e sempre meno la sfera Morale. Ed è proprio con questo trucco che ci stanno sottraendo libertà. Qui, appunto, si tratta di Morale, di rispetto per l'individuo. Di sensibilità.

E, come le dicevo, l'Uomo viene prima della parola. L’Uomo, e i suoi diritti.





3) Ritiene che nella nostra società stiamo assistendo a un progressivo perdersi di senso? In altre parole, quando un termine o un simbolo perde di senso, quando vi è uno scollamento fra significato e significante e i simboli non sono più convenzioni universalmente accettate nella medesima cultura, su quali presupposti può generarsi e basarsi una sana comunicazione e una vera condivisione di ideali e progetti nella società?

La perdita di senso è sotto gli occhi di tutti.

Ma questo smarrimento, come dicevo, è indotto dal clima di generalizzata distrazione prodotto dai media, da una scuola degenere, da una politica corrotta, da un azzeramento della dimensione morale.

Al di là degli aspetti semiotici, quel che conta davvero è ricominciare a domandare, a chiedere. Dobbiamo riprendere a chiederci il senso. Dipende da noi, solo da noi, ricominciare a domandare.

Quella Domanda sul significato, sulla direzione, sul “valore” della nostra vita, non può ottenere altra risposta che da noi stessi. Una risposta individuale, personalissima, assolutamente unica.

Non serve altro. Invertir la rotta. Far silenzio e ripristinare quella meditazione esistenziale che ci identifica in quanto uomini e che costituisce l'unica via per il raggiungimento della nostra realizzazione individuale. Ossia, della nostra Felicità.





4) Gorgia, antico filosofo greco, affermava che "la realtà non esiste; se esistesse non sarebbe conoscibile; se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile". Si evoca, in pratica, uno sfasamento tra significato e significante, che implica la creazione di terminologia e iconografia sciolte da ogni vincolo, poliedriche ma incapaci di comunicare, di inviare un messaggio univoco. Pensa che si tratti dello scenario attuale o ritiene che questa sia una preoccupazione infondata?

Come spiego nel mio recente libro BoscoCeduo. La rivoluzione comincia dal Principio, io sono convinto che con quel suo celebre motto Gorgia intenda dire l’opposto. Normalmente viene interpretata come una posizione antitetica all’eleatismo. Gorgia, insomma, sosterrebbe: “Nulla è come l’Essere descritto da Parmenide”, nulla ha quelle proprietà. O, in altre parole: “l’Essere di Parmenide non esiste”.

Ecco. Io credo invece che il grande sofista stia dicendo proprio che il Nulla è. Che è, appunto, quell’Essere, nel senso che l’Essere parmenideo altro non sia che la nullificazione dell’esistenza, di quella dimensione spazio-temporale in continua trasformazione di cui parla Eraclito.

Gorgia, insomma, ci avverte: quell’Essere parmenideo è un Nulla. Infatti non esiste. Come tale, nullifica ogni esistenza. Ma è un Nulla che è l’unico vero “Tutto”.

Perciò, nella sua trascendenza, non può essere oggetto di alcuna comprensione razionale, così come nessuna parola (che, come tale, è sempre e inevitabilmente spazio-temporale) si presta a poterlo descrivere.

Quanto all’esito di questa affermazione, poi, è evidente che quel “nichilismo semantico” che comporta, quell’abbandono passivo alla “morte di Dio” qui ancora intesa soprattutto come distruzione di una “verità” oggettiva di tipo linguistico, semantico e concettuale, molto assomigli al nichilismo esistenziale e allo spaesamento generalizzato che Nietzsche ha così profeticamente annunciato e che Heidegger riassume in quel suo amaro concetto della “Notte più nera”





5) Umberto Eco, parlava di "semiosi illimitata", ovvero la narrazione di un mondo in cui è impossibile comunicare, in quanto, in un processo di costruzione di significato, operato in collaborazione da emittente e da destinatari, ognuno inserisce nel contenitore "testo comunicativo" il senso che preferisce, non quello che effettivamente l'emittente intende comunicare attraverso quel testo. Lei pensa che oggi la comunicazione attuale si sia inserita in questo vicolo cieco?

Sì, certamente.

Avverto profondamente il “dramma” della comunicazione. Soprattutto di quella esistenziale. Ma anche questo problema può venire accolto in modi diametralmente opposti.

Se da un lato, infatti, l’evidente impossibilità di una comunicazione univocamente decifrabile, resa tale da quell’infinità di “angolazioni” esistenziali da cui ogni individuo osserva il mondo, risulta innegabile, dall'altro lato essa si traduce in meravigliosa sfida per confrontarsi, per procedere incessantemente gli uni verso gli altri, in un dialogo costante, in uno scambio ininterrotto di sguardi, di gesti, di parole, caratterizzati da innumerevoli, diversissime e variopinte sfumature personali.

Quelle misteriose e inoggettivabili sfumature che rendono infinitamente affascinante l’obiettivo, socraticamente inarrivabile, della profonda comprensione tra esistenze diverse.

PIETRO RATTO E SENSO COMUNE - ALLA RICERCA DEL SEGNO PERDUTO PIETRO RATTO E SENSO COMUNE - ALLA RICERCA DEL SEGNO PERDUTO Reviewed by Polisemantica on giovedì, dicembre 20, 2018 Rating: 5

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